L’approccio all’attività d’impresa orientato alla generazione di un impatto sociale positivo sulla collettività e l’ambiente è quello perseguito da (RI)GENERIAMO, la società benefit sostenuta da Leroy Merlin Italia. Don Bruno Bignami, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e docente di Teologia Morale, spiega se esistono affinità tra questo approccio e quello dell’ecologia integrale che Papa Francesco ha esortato ad adottare nell’enciclica Laudato si’.
Come vede il tema dell’impatto sociale?
La questione dell’impatto sociale è molto delicata e allo stesso tempo fondamentale. L’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco ha avuto la genialità di coniugare il termine “ecologia” con l’aggettivo “integrale” per dirci che se vogliamo parlare di ecologia in modo serio non possiamo limitarci alle questioni ambientali, ma dobbiamo saper tenere insieme le connessioni tra le questioni ecologiche e quelle sociali. Per cui non possiamo mai isolare un tema ambientale, ma dobbiamo sempre collegarlo all’impatto che esso ha: sulla vita delle persone, delle comunità, sulle eventuali esclusioni, ma anche sulle possibili inclusioni che ogni volta possono derivare dalle scelte che si operano in campo ecologico. Sempre di più, quindi, avvertiamo la necessità di un nuovo paradigma. Anche perché sempre di più ci accorgiamo dei limiti di un modello attuale, che è eccessivamente semplificatore. Esso, infatti, considera e limita le questioni ambientali al rapporto con le realtà create, con l’ambiente, la natura, il paesaggio, e non sa invece coniugare il rapporto imprescindibile che le questioni ambientali hanno con l’uomo e la sua vita in tutta la loro complessità.
Come si possono aiutare le imprese a integrare nel loro agire quotidiano la grande complessità di questa visione?
Credo che si debba soprattutto acquisire una consapevolezza che non esiste impresa se non collocata in un territorio, se non legata a una realtà concreta fatta da una comunità di persone e dall’ambiente in cui si situata. Il primo sguardo dell’imprenditore è quello alle risorse e alle possibilità del territorio in cui opera. Ogni volta che un’impresa vive astrattamente, rispetto a un territorio, a una comunità, si apre la strada al degrado. Si finisce per realizzare uno sfruttamento sconsiderato dell’ambiente, si trascura il valore delle comunità, delle famiglie, delle persone che lì abitano. Quando invece un’impresa ha la consapevolezza di vivere la situazione concreta, che possiamo chiamare “incarnazione”, è allora che nascono esperienza belle, interessanti, generative. È dalla consapevolezza di stare dentro ai luoghi di vita che nasce la capacità di tutela sia delle persone sia dell’ambiente. Non si deve mai dimenticare che le persone sono la risorsa fondamentale e la vera ricchezza di qualsiasi impresa, come ricordano molto chiaramente la dottrina sociale della Chiesa e il magistero più recente di Papa Francesco, sia dell’ambiente. La normalità, in altre parole, è quando un investimento produttivo valorizza un territorio e le persone che ci vivono. Quando ciò non accade, in nome ad esempio di un profitto esclusivo o di un interesse particolare, nascono i problemi. E a volte accadono veri e propri disastri, che normalmente sono prima ambientali ma poi producono subito un impatto diretto sulla comunità e la società. Non è un caso, ad esempio, che oggi sempre più giovani, ma non solo loro, fuggano da territori profondamente inquinati, ormai invivibili: la persona umana, infatti, cerca un ambiente di vita che lo tuteli, dal punto di vista della salute. Ecco, bisogna sviluppare la visione di questa complessità, abitarla, saperla promuovere nelle scelte concrete che si fanno. Non è facile, ma neanche impossibile. Anzi, normalmente è quello che accade con il vero imprenditore, che ha davvero a cuore le sorti del territorio in cui opera, delle persone con cui è in rapporto, di cui si cura, perché quel luogo e quei dipendenti costituiscono il suo ambiente di vita. Più difficilmente ciò avviene quando ci sono manager, come dire, catapultati dall’alto, che non hanno alcuna conoscenza e alcun rapporto con il territorio.
In questa fase post-pandemica si avverte in molti il desiderio di “correre” per tornare al più presto a quanto si faceva prima, anche in termini di produzione: tale situazione apre spazi al cambiamento di visione di cui parlava, o li restringe?
Credo che porsi l’obiettivo del “tornare come prima” significhi commettere un grave errore. Le cose sono di fatto cambiate, e radicalmente. Sono cambiati i rapporti fra le persone ed è in questione un modello economico che ha fatto il suo tempo. Questi mesi hanno acuito le sofferenze. È del tutto evidente che questo stop dovuto alla pandemia mondiale è il segnale di un modello di sviluppo che senza cambiamenti profondi rischia anche in futuro di ripresentarci un conto salato. Ciò di cui abbiamo bisogno è ripensare davvero i modelli, specie laddove questi modelli si sono rivelati troppo fragili, per non dire disastrosi. Pensiamo ai modelli di sanità nel mondo, che sono molto diversificati e non è assolutamente detto che riescano ovunque a tutelare gli ultimi: ci siamo resi conto che se il lavoratore, in epoca di pandemia, non è tutelato nella sua salute, ciò ovviamente ha un impatto sul lavoro, sulla produzione, su tutta l’economia. La grande sfida, allora, è quella di ragionare su come aprire fasi nuove in cui superare gli errori del passato, di cui abbiamo chiara consapevolezza. Non ci manchi il coraggio di percorrere nuove strade. Tuttavia questo auspicabile passaggio storico non è così scontato e lo si vede anche da alcune scelte che si stanno facendo, ad esempio in ambito europeo, dove si rischia di ripetere gli errori del passato. C’è, ad esempio, il rischio di greenwashing, cioè che si facciano passare per ambientali scelte che con l’ambiente non hanno nulla a che vedere o che addirittura per l’ambiente possono risultare negative. Siamo in una fase in cui occorre sia vigilare, sia avere il coraggio, ribadisco, di intraprendere strade nuove. Ci si deve far accompagnare in questo cammino anche dalle tante e belle esperienze già in atto, penso ad esempio le cooperative di comunità nelle aree interne dove i giovani possono sentirsi protagonisti. Esse stanno operando e investendo in percorsi innovativi.
L’Energia del Bosco è il progetto lanciato da (RI)GENERIAMO con i suoi partner per provare a coniugare la valorizzazione del patrimonio ambientale, e dei servizi ecosistemici forestali, con la strategia di riduzione dell’impatto ambientale per le imprese. Può rappresentare un possibile “percorso innovativo” nel senso di cui parlava?
Credo che progetti come questo si possano considerare paradigmatici del passaggio fondamentale che abbiamo bisogno di compiere. Il bosco, in questo caso, viene infatti visto non solo come una risorsa economica, ma anche e soprattutto come risorsa sociale perché abbiamo la necessità di rigenerare le nostre vite all’interno di ambienti sani, dove si può camminare, respirare, vivere un contatto diretto e una relazione profonda con la natura. Così si promuove una cultura contemplativa. Bisogna superare quella cultura che considera le cose solo per il loro utilizzo a fini economici, bisogna andare oltre il modello economico consumistico che quasi ci obbliga a pensare ad alcune realtà solo come a risorse da sfruttare, o che possono essere tranquillamente abbandonate. Serve un modo nuovo d’intendere l’attività d’impresa, capace di portare avanti queste istanze che non solo sono in linea con gli insegnamenti di Papa Francesco nella Laudato si’, ma possono permettere di ripensare completamente i nostri territori. In particolare, le cosiddette “aree interne”, che normalmente vengono trascurate, possono diventare autentici laboratori di buona economia, di lavoro buono, di vita buona.